«Il distacco sussistente fra l’infinitamente piccolo, il cittadino isolato, e lo Stato, troppo più grande, ed altresì l’esigenza dell’instaurazione di un più giusto assetto sociale con la vittoria sugli ostacoli, ad esso provenienti dalle forze economicamente predominanti interessate a mantenere le situazioni acquisite di privilegio, e così potenti da influenzare la condotta della cosa pubblica, frustrando le finalità assegnate agli istituti democratici, danno ragione della importanza basilare di quei corpi intermedi» che «entrano a contrassegnare uno dei caratteri essenziali del regime democratico, conferendogli la qualifica di “pluralista”. Corpi intermedi diversi nell’origine e nella struttura: o ereditati dalla tradizione (come i comuni, alcuni dei quali preesistenti allo Stato), o germogliati dallo spirito associativo dei cittadini per potere formare e rendere efficienti le concezioni ed aspirazioni politiche popolari (come i partiti), o (come i sindacati) per la migliore tutela degli interessi economici e di lavoro, necessaria a promuovere e rafforzare l’opera di eliminazione delle sperequazioni di cui si è parlato e condizionanti perciò il sorgere di una società non lacerata nel suo interno da contrasti radicali, suscettibile invece di porsi a valido supporto di una vera democrazia». Così, Costantino Mortati, nel 1959, in “La persona lo Stato e le comunità intermedie”, introduce il tema dei corpi intermedi sottolineando come questi svolgano un ruolo di importanza basilare divenendo essi stessi caratteri essenziali del regime democratico.
Ricorre, quest’anno, il settantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana. Il 2 giugno del 1946, il popolo italiano, attraverso un referendum, tra monarchia e repubblica aveva scelto la repubblica ed eletto l’Assemblea costituente che, dopo appena un anno e mezzo di intensi lavori, il 22 dicembre del 1947 approva la legge fondamentale dello Stato, firmata, cinque giorni dopo, dal Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, ed entrata in vigore, appunto, il 1° gennaio del 1948. Un’Italia profondamente segnata da un ventennio di dittatura fascista, dalla sconfitta rovinosa nella guerra mondiale e da una lacerante lotta di Liberazione, seppe darsi, in così poco tempo, la propria Carta costituente, quel patto civile che, ancora oggi, è alla base della pacifica convivenza del nostro Paese. Costantino Mortati, unanimemente annoverato tra i più autorevoli giuristi italiani, fu uno dei protagonisti di quella stagione. Era stato docente di diritto costituzionale a Messina, Macerata e Napoli e, nel 1946 fu eletto all’Assemblea costituente entrando a far parte della più ristretta “commissione dei 75”. Dopo la Costituente continuò ad occuparsi, per il resto della vita, di diritto costituzionale come docente all’Università La Sapienza di Roma e come giudice costituzionale dal 1960 al 1972.
Il prezioso contributo di Mortati al costituzionalismo italiano, sia nella redazione della Carta che nel successivo dibattito accademico e giurisprudenziale, in realtà, trae la sua origine – e questo ne segnala lo spessore culturale e intellettuale – in un lungo processo di elaborazione che inizia negli anni ’30, gli anni che per lui furono quelli dello studio e dell’impegno nelle università. In quel periodo, infatti, affermandosi come uno dei più brillanti giuristi, comprese, prima di tutti, come l’ingresso delle masse nella scena politica avrebbe prodotto profondi sconvolgimenti nell’assetto degli ordinamenti esistenti che erano di natura oligarchica. Da questi sconvolgimenti – che soltanto più tardi, la conclusione del conflitto mondiale, l’occupazione tedesca, la guerra di Liberazione e il voto del 2 giugno renderanno evidenti – Mortati, per primo, aveva capito ed elaborato la ferma convinzione secondo la quale non si poteva non tenere conto di quel nuovo protagonismo. Egli aveva chiaro che non sarebbe stato possibile tornare indietro agli statuti liberali. Al contrario era necessario capire quel fenomeno e inquadrarlo per farne elemento di energia positiva nella costruzione della giovane democrazia italiana. E’ un popolo quello che irrompe direttamente e in maniera dirompente nella politica e ne diventa protagonista in prima persona. Il 2 giugno del 1946, al referendum per scegliere tra monarchia e repubblica, votano circa 25 milioni di italiani: 12 milioni gli uomini e 13 milioni le donne – è la prima volta per le donne in una consultazione politica nazionale – su 28 milioni di aventi diritto, pari complessivamente quasi al 90%. Numeri, a leggerli ora, impressionanti – e forse non più ripetibili- aprono un ciclo di partecipazione che durerà cinquanta anni. Ma il popolo, nella vita politica entra non soltanto nella “sacralità” del giorno del voto, ma lo fa nella vita di tutti i giorni. Mortati lo aveva intuito molto prima, già nel 1931 quando nella sua prima opera, “L’ordinamento del governo”, dichiara esplicitamente che il suo intento è quello di indagare a fondo il rapporto tra il diritto e la politica.
Alla luce di questo tema, il rapporto tra diritto e politica, si può leggere l’intera opera di Mortati che viene considerato comunemente il padre della teoria della esistenza, insieme alla costituzione formale, di una costituzione materiale. Quella teoria, basata sull’idea della possibilità di una costituzione materiale distinta da quella formale e di un necessario rapporto tra le due, ha animato il dibattito teorico del costituzionalismo e della filosofia del diritto per tutta la seconda metà del ‘900 a partire proprio dalla teorizzazione che ne fece Mortati nel volume “La Costituzione in senso materiale” del 1940. Egli riteneva e teorizzava che il diritto non si esaurisse nel complesso delle norme vigenti subordinate a una costituzione formalmente posta nella posizione di vertice nella gerarchia delle fonti del diritto. Al di sopra e, temporalmente, prima della costituzione formale, bisogna riconoscere l’esistenza di una «costituzione originaria» composta di due elementi: un fine, uno scopo ampio da «apprezzare in modo unitario i vari interessi che si raccolgono intorno allo Stato», e i corpi intermedi, primo tra tutti il partito politico, quali strumenti per realizzare quello scopo. Questa costituzione «originaria» o «materiale» non è per lui un presupposto o un sostrato di quella formale, e non è meno giuridica di essa. Al contrario è giuridica per eccellenza, in quanto proprio da essa si ricava il criterio per imprimere giuridicità «a tutto il sistema degli atti successivi, attraverso i quali si svolge». L’esatto contrario della contrapposizione tra una «costituzione vera», basata sui rapporti di forza, e una «costituzione giuridica» che le pone su piani incomunicabili privando di fondamento la seconda. Proprio in quanto giuridica, la costituzione originaria può trasferire sé stessa nella costituzione formale, che a sua volta stabilizza e garantisce l’equilibrio dei rapporti di forza e i fini politici componenti la costituzione materiale, pur senza assorbire interamente e definitivamente la «ideologia sostenuta dalle forze politiche dominanti», che può sempre indirizzare lo svolgimento della costituzione positiva verso forme anche diverse dalla revisione del testo scritto. Fra costituzione materiale e costituzione formale c’è, deve esserci, tendenziale compenetrazione. Combinando, infatti, le funzioni di ciascuna – rispettivamente, imprimere finalità fondamentali e costitutive alle istituzioni dello Stato attraverso i partiti politici e gli altri corpi intermedi, quali enti locali, associazioni e sindacati, e stabilizzarne e garantirne il perseguimento –, si può prospettare la nozione di costituzione e spiegarne, oltre alla nascita, la necessità di durare nel tempo. Il rapporto tra costituzione materiale e formale è dinamico e correlato all’azione delle forze politiche nell’ambito di un gioco mutevole ma con limiti sufficientemente precisi. Il tema del limite dei poteri era stato elaborato da Mortati nell’esperienza del ventennio che aveva attraversato comunque da giurista cristiano recuperando via via la propria sensibilità alla necessità dei contrappesi.
La teoria di Mortati realizza il superamento della tradizione giuspositivistica. Questa, collocando lo Stato al centro del sistema giuridico, riduceva la costituzione a una delle sue fonti – quella suprema – e anche quando annetteva delle finalità allo Stato, ne conservava la caratteristica di realtà atemporale, capace di assorbire in sé le mutevoli espressioni della società e di rendere irrilevante la politica. Mortati, introducendo l’elemento finalistico nella costituzione materiale in quanto coessenziale alla politica – che si organizza nei partiti e negli altri corpi intermedi – la rende idonea a proiettarsi nel lungo periodo. Permeando di sé la costituzione formale, quella materiale, diventa il criterio cui commisurare, in ogni ordinamento, il tipo di rapporto fra stabilità e cambiamento, con la possibilità di raggiungere un equilibrio avanzato fra di essi che ne realizza la lunga durata. E allora, quel popolo che entra per la prima volta in massa nella vita politica, organizzandosi in gruppi di varia natura, rende possibile la sua stessa costituzione in fondamento dinamico. Le comunità intermedie tra il singolo cittadino e lo Stato diventano le cinghie di trasmissioni della volontà popolare ed elemento fondante del sistema. Per questo, auspicava Mortati riferendosi soprattutto ai partiti, dovrebbero rispettare livelli minimi di democrazia interna. La rappresentanza organica basata sul pluralismo e su un articolato sistema basato su autonomia e democrazia dei partiti è alla base della forma di governo parlamentare che quei corpi provvedono a stabilizzare.
In occasione dei settanta anni di vita della Costituzione, si vuole, con questa pubblicazione, offrire una rilettura della nostra Carta fondante e fondamentale proprio con l’impianto critico suggerito, come abbiamo visto, da Costantino Mortati. Mettendo, cioè, al centro della lettura proposta il rapporto tra lo Stato, le istituzioni e il cittadino. Cercando di riscoprire la natura reale del rapporto tra il diritto e la politica nel quale i corpi intermedi, quelli che Giulio Sapelli definisce «realizzazioni concrete che nella società civile rampollavano» e che – aggiungiamo noi – dovrebbero tornare a “rampollare”, quelli che costituiscono l’architrave dell’intero sistema oltre a garantire quel bilanciamento che rende democratica la nostra forma di Stato. I temi raggruppati sotto una serie di parole chiave affrontano i problemi, quanto mai attuali, dell’intero assetto costituzionale che vanno dalla rappresentatività – centrale su questo l’analisi dei diversi sistemi e leggi elettorali – alle forme di governo, dalle autonomie locali e territoriali all’ordinamento internazionale, dalla democrazia alle libertà fondamentali, dai rapporti economici al lavoro, dall’imposizione fiscale alla programmazione economica. Una lettura così fatta ci permette di avanzare un’ipotesi di discussione. La crisi che i corpi intermedi, a partire dai partiti politici per arrivare al mondo dell’associazionismo passando per i sindacati, vivono nella nostra contemporaneità, non è forse lo stesso, e allo stesso tempo all’origine, della più generale crisi di civiltà che investe i nostri tempi? Può la costituzione materiale essere d’aiuto per risolvere questa crisi? Forse sì, ma soltanto due condizioni. Che ritrovi quel fine, quello scopo ampio in grado di riportare ad unità i vari interessi che si raccolgono intorno allo Stato e che i corpi intermedi ritornino a svolgere la loro funzione che è quella di essere strumenti per la realizzazione di quello scopo, lo scopo dell’intera comunità e non dei singoli individui. Senza la rimessa in moto di questo processo virtuoso non si potrà ricostruire il primo e i secondi sono destinati a dissolversi lentamente. I settant’anni di “vita costituzionale” stanno a dimostrare che ancora è possibile riprendere un cammino che oggi appare irrimediabilmente interrotto.